Capitolo XX
(trascrizione a
cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
5 novembre 1719
Disertore spagnolo A 5 novembre. Venne un soldato
spagnuolo di cavallo fuggito dalle sue truppe, che scorrevano per questa
Comarca. Avendosi venduto il cavallo, si procurò il passaggio con barca per
Calabria.
6 novembre 1719
Trattamento privilegiato nei confronti dei Milazzesi,
grazie alla loro fedeltà alla corona, da parte del conte di Mercy 6 novembre.
Venne notizia che il signor generale de Mercij ha pratticato nella città di
Messina verso tutti gli abitatori di questa [città di Milazzo], di qualunque
condizione, con ogni placidezza e civiltà. Anzi, alcuni gentiluomini e nobili
di questa hanno stati bene trattati, anteposti a tutta la nobiltà di Messina
nell’udienza, con molt’ammirazione delli corteggiani ch’assistevano nel suo
palazzo. Protestandosi [Proclamando,
ndr] publicamente che riguardava tutti gli melazzesi con quella specialità
dovuta, atteso la loro fedeltà, publicandola cossì a tutti l’officiali e
comandanti della sua nazione, come a tutti gli nobili messinesi, li quali di
continuo stavano al suo corteggio corteggiandolo. Anzi, tutto quello che se li
richiedea da questi cittadini volentieri l’assecondava, per quanto si potea
stendere. Come pure tutti quelli signori comandanti ed officiali tudeschi, li
quali avevano dimorato in questa città, molto complimentavano gli abitatori di
questa, restando molto ammirati gli messinesi osservando queste finezze. E
forse con alcuna lor invidia vedendosi posposti.
7 novembre 1719
Ritorno inaspettato da Messina dell’autorità
militare di Milazzo
A 7 novembre. Impensatamente retornò da Messina il signor coronello comandante
di questa ad hore due di notte. E siccome non si penetrò la sua partenza [E così come non si comprese la ragione della sua partenza, ndr], altretanto
nemeno s’ebbe notizia di cosa alcuna.
8 novembre 1719
Giungono da Messina due reggimenti imperiali di
cavalleria (Roma e Tige) che si accampano sotto il colle di
San Rocco. Giunge anche un terzo reggimento di fanteria. Civili costretti ad
abbandonare le proprie case per garantire un alloggio ai militari A 8 novembre.
Vennero da Messina in questa città due regimenti tudeschi di cavalleria, cioè
quello nominato di Roma e l’altro di Tiegge. Fecero il loro quartiero fori le
porte, sotto il Monte di San Rocco, nel Purracchito. Inoltre ben tardi comparse
altro regimento tudesco nominato di Paraith
di fanteria, partito da più giorni innanzi da Messina: s’assignò il quartiero
nella città ed in molte parti. E si patì molto dalli cittadini, poiché,
nonostante che la città fosse stata destrutta nella maggior parte, pure gli
officiali di detto regimento volsero molte case per lor’alloggio. E fu
necessario accomodarli con molto rammarico delli abitatori, stanteché realmente
non si ritrovavano abitazioni né per lor medemi, né per detti officiali. Non
potendosi complire colli sudetti officiali e comandanti, presero l’assonto gli
giurati - d’ordine del signor comandante - di ricercar di casa in casa ove
puotessero alloggiare. E pure fu necessario accomodarsi tutti, non avendosi
riguardo alle strettezze de’ poveri cittadini.
9 novembre 1719
Approfittando della confusione creatasi all’interno
della cittadella fortificata a causa dei movimenti delle truppe, il prigioniero
Domenico Tappia si confonde tra i soldati e riesce ad evadere, eludendo le
sentinelle di guardia ed incamminandosi verso Pozzo di Gotto, dove si sarebbe
unito alle truppe spagnole 9 novembre. Partirono da questa città tutti quei
regimenti tudeschi che si ritrovavano distaccati, conducendosi verso l’armata
vicino la città di Messina. Avendo solamente rimasto quelli - così di
cavalleria, come di fanteria - venuti pochi giorni innanzi. Pure, nel tumulto [nella confusione, ndr] delle truppe
nella condotta [nel trasporto, ndr]
delli loro bagagli (parte delli quali si ritrovava nel Regio Castello di questa
città, ove risideva il direttore in esso Castello con altri officiali per
custodia del medemo), il cennato Don Domenico Tappia, qual si ritrovava
prigioniero da più giorni in detto Castello, ebbe tal’ardire ed industria che
nella mischia delli soldati che uscivano ed entravano - alcuni introducendo il
bagaglio dell’officiali che doveano commorare in detto Castello ed alcuni
nell’uscita di molte robbe d’altri officiali che sloggiavano dovendosi partire
per l’armata - s’interpose disinvolto e, fingendosi o guardiano della robba che
uscia o uno d’essi soldati, o pure conducendo lui stesso alcuna soma o con
altro pretesto, nella meschia folla di tante persone liberamente trapassò due
sentinelle con molti soldati di guardia in due porte e posti deputati. Anzi,
riconosciuto in città e richiesto della sua scarcerazione, attestò essere stato
scarcerato dal signor comandante della Piazza. E di più, per simulare la fuga
intrapresa, discese per la porta di Santa Maria, per la quale s’ascende e
discende nella Cittadella, ritrovandosi l’altra porta nomata dell’Isola da più
tempo serrata per l’accidenti della guerra. E s’ammirò che in detta porta di
Santa Maria esisteano due sentinelle con molti soldati, l’una dalla parte di
sopra in detta cittadella e l’altra nella parte inferiore. E finalmente con più
audacia ed intrepidezza seguì il suo camino per la strada diritta, passando
pure il palazzo del medemo signor comandante. E trascorso il quartiero nominato
delli Spagnuoli, nel quale si ritrovavano, oltre la moltitudine di più truppe,
le solite sentinelle, uscì indefesso dalla città per la porta sotto detto
quartiero presidiata con le solite sentinelle. E pedestre s’incaminò per la
città di Puzzo di Gotto, ove si ritrovava[no] suo padre signor Don Stefano
Tappia e la moglie che dovea prendere, figlia d’un saponaro benché con alcune
facoltà.
Ove come doppo
si disse [lo stesso Tappia, ndr]
partì a ritrovar le truppe spagnuole, nelle quali si trattenne. E[p]pure
s’ammirò che deluse a Gerolamo Calì, da parte del quale era stato carcerato
nelle carceri del Castroreale e doppo in questo Regio Castello (dal quale se ne
fuggì) per il furto preteso fatto in casa del detto di Calì, consenziente la
sua figlia che ancora pretendea congiungersi in matrimonio col detto di Tappia,
e per altri delitti (conforme publicamente s’attestava).
Osservatosi la
fuga del detto di Tappia da Natale Sangiorgi, carceriero del detto Regio
Castello, fu necessario restar inteso il [darne
comunicazione al, ndr] signor comandante. Perloché il Sangiorgi restò
s’equestrato in detto Castello, fulminando il detto signor comandante per detta
fuga. Ma non avendo questi colpa alcuna, poiché l’avrebbe posto ben serrato al
sudetto di Tappia allorché fu condotto in carceri, sapendo la sua sottigliezza
ed astuzia, se non avesse avuto l’ordine dal detto signor Don Giovanni Colonna,
regio capitano di questa [città], di lasciar nel piano al detto Tappia. Giacché
dal signor comandante la causa colla carcerazione del medemo era stata rimessa
al Colonna capitano, volea propolarlo al signor comandante per sua discolpa, ma
trattenuto dal sudetto signor capitano, questi tanto s’adoprò col detto
comandante che fece scarcerare al Sangiorgi carceriero. Anzi rimese più
corrieri nella Comarca per farsi arrestare al Tappia, bensì riuscì fallace [illusoria, ndr] la sua pretenzione,
evitata dall’astuto Tappia per aversi retirato nelle truppe spagnuole, come
s’espresse.
Sicilia, 1718-19
10 novembre 1719
Le truppe spagnole ostacolano i rifornimenti di
viveri dai comuni limitrofi e la popolazione milazzese soffre nuovamente la
carestia. Dalla Calabria giunge farina, ma è destinata soltanto alle truppe
imperiali 10
novembre. Gli Spagnuoli, più ostinati di prima, non contenti d’aver assassinato
colla desolazione delle vigne ed alberi fruttiferi tutta la Piana di questa
città (con un assedio infruttuoso per più mesi e doppo svergognatamente
intrapresa una fuga disonorata), senz’alcun loro profitto, ma solamente col
grave danno ed interesse di tutti questi poveri cittadini, di continuo hanno
preteso colla loro presenza infestare la medema Piana, facendosi a vedere. Come
seguì in questo giorno, per queste parti convicine. Tanto che s’ha tolto
dell’intutto il commercio per la Comarca, non avendo quei paesani ardire di
scendere in città per vendere le vettovaglie con alcun loro guadagno. Perloché
la città si vedea molto esausta con carestia insoffribile.
Da Calabria
vennero alcune tartane cariche di farine e paglia per servizio delle truppe
tudesche, repostandosi in magazeni deputati per la provianda dell’arme cesaree
e cattoliche. E con tutto ciò gli poveri abitanti non si potevano sostenere
colla loro vista delli viveri, giacché servivano solamente per dette truppe.
11 novembre 1719
La cavalleria imperiale si reca nella Piana per
mettere in fuga le truppe spagnole. Ma senza successo 11 novembre.
D’ordine del signor comandante della Piazza uscirono in questa Piana alcune
truppe tudesche di cavalleria per far fuggire gli Spagnuoli. Ma questi, per
aver la loro intelligenza colli paesani della Comarca in queste parti
convicine, non si fecero ritrovare, poiché hanno adoprato non da soldati, ma
come banditi, non avendo luogo sussistente. E rubbando e fuggendo.
12 novembre 1719
Giungono altre truppe imperiali: presenti a Milazzo
i reggimenti di fanteria Seckendorff e Bayreuth
e quelli di cavalleria Roma e Tige 12 novembre. Vennero in questa
città alcune truppe tudesche delli regimenti di fanteria di Sekchendorff e di
Paraith al numero di 240. Tanto che in città si ritrovano questi due regimenti
intieri di fanteria ed altri due di cavalleria nomati di Roma e Tiegge.
13 novembre 1719
L’aristocratico Federico Lucifero invia una tartana in
Calabria per rifornire di viveri la città di Milazzo. Al ritorno l’imbarcazione
viene però predata da corsari di Palermo fedeli agli Spagnoli che la conducono a
Patti, richiedendo un riscatto di 160 onze. Il Lucifero ottiene quindi la
collaborazione dei corsari di Lipari, incaricandoli di recuperare
l’imbarcazione con tutto il carico. Ma questi ultimi consumano parte della
mercanzia, rialzando persino il prezzo del riscatto 13 novembre. Da
molto tempo il signor Don Fiderico Lucifero, col permesso da questo signor
coronello di Mastarimbergh, comandante, avea inviato una sua tartana nella
Calabria per comprare alcuni viveri per servizio di questa città. Guidata detta
barca dal padron Giuseppe di Napoli. Ed infatti, essendo nel ritorno, restò la
sua imbarcazione predata d’alcuni corsari di Palermo che scorreano questi mari
a devozione delli Spagnuoli, sopra il nostro Capo, puochi miglia distanti da
esso. E condotta da essi corsari nella città di Patti, qual era sotto il
dominio di essi Spagnuoli, si pretese vendersi e la barca e la mercanzia. Onde
avuta la notizia, dal detto signor di Lucifero s’adoprò per mezzo d’amici in
detta città per recuperare e la barca e la mercadanzia. E pretendevano gli
corsari la somma di onze 160. Al che, non consentendo detto signor di Lucifero,
sembrandoli molto esorbitante la somma richiesta, ricorse al sudetto signor
comandante che si scrivesse a quello di Lipari, affinché s’ordinasse alli
corsari di quell’Isola che si conferissero nella marina di Patti e predassero
la sudetta barca. Ed infatti tutto ciò si eseguì, conducendo detta barca nella
città di Lipari, ove, inviata persona da parte del sudetto signor di Lucifero,
[tale persona] ritrovò che quelli corsari, attestando esser sua [loro, ndr] la barca, volevano dal detto
di Lucifero onze 180. Il che recava stupore al medemo, poiché puoteva
recuperare e la barca e la mercanzia dalli corsari nemici per meno somma,
allorché esistea intiera tutta la mercadanzia, la quale doppo fu nella maggior
parte consumata dalli corsari di Lipari, specialmente molte botti di vino. Alla
fine si devenne all’accordo, non avendosi penetrato la somma sodisfatta. Di
più, per aver posto sopra detta barca a Nunzio Mandaliti e Domenico Rizzo per
sovrastanti a detta mercadanzia, questi furono condotti prigionieri dalli
corsari nella città di Patti, ove, spogliati pure dalle robbe che portavano
addosso e posti in carceri, alla fine furono rimessi uno doppo l’altro con
qualche composizione, interposti alcuni amici del detto signor di Lucifero
nella città di Patti. Avendo venuto il Rizzo a 20 di detto mese e l’altro
alcuni giorni doppo.
14 novembre 1719
La carestia affligge la popolazione A 14 novembre.
Era cossì eccessiva la carestia in questa città, così di pane come di
qualsivoglia sorte di vettovaglia, pure d’erbe, che sembrava insoffribile e non
si puotea più tollerare. Tanto che gli poveri cittadini erano redotti in molta
miseria e quasi disperati.
15 novembre 1719
Giunge la notizia dell’arrivo del viceré Pignatelli
a Messina
15 novembre. Venne notizia fermata in questa città che in quella di Messina
avesse approdato sopra alcune navi l’eccellentissimo signor viceré in questo
Regno, il signor Pignatelli, duca di Monteleone, grande di Spagna, cavaliero di
molto garbo inviato dall’augustissimo imperadore Carlo Sesto, come Re di questo
Regno col nome di Carlo Terzo. Avendo condotto l’eccellentissima signora moglie
e figli, con molto equipaggio. Affermandosi che la sua venuta fosse stata sotto
il 13 di questo mese di novembre. Pure partirono da questa [città] molte
cavallerie che si ritrovavano, conducendosi verso la città di Messina per
unirsi con le truppe tudesche.
16 novembre 1719
Si ordina ai civili di consegnare tutto il legname
in loro possesso allo scopo di ripristinare le coperture dei magazzini siti nel
vicolo di S. Giacomo (odierna via Ryolo di Fontanelle) e destinati ad ospitare
la cavalleria 16
novembre. Ritrovandosi molte cavallerie in questa città senza quartiero
conveniente, stando allo scoverto, ed essendo tempo d’inverno, si gettò bando
publico che quei cittadini ch’avessero legname la dovessero approntare per
coprirsi alcuni magazeni posti nella vanella di San Giacomo. Li quali
nell’assedio antecedente per necessità di legname furono discoperti per ordine
del signor generale Vallais. [Ciò] affinché la sudetta cavalleria stasse al coperto.
Ed infatti furono forzati gli abitanti in questa [città] consignare tutta
quella legname che si ritrovavano.
17 novembre 1719
La pace sempre più vicina. Termina la prigionia per
i quattro milazzesi recatisi a Patti, dove furono arrestati con l’accusa di
spionaggio
17 novembre. Publicamente si propalò in questa città che senz’alcun dubio
s’avrebbe concertato la pace tra gli principi cristiani. Del che in generale si
stiede con alcun’allegrezza. Poiché colla pace avrebbe nonché [non solo, ndr] questa città, [ma anche]
tutto il Regno, respirato, togliendosi dall’angustie e d’afflizioni per tanto
tempo sofferti.
In questo giorno
vennero da Palermo maestro Domenico
Oliva, maestro Saverio Maiorana, Pietro Maiorana e maestro Saverio Cullurà, li
quali per molti mesi aveano stato carcerati nel Castellamare di detta città per
avere stato presi nella città di Patti, in tempo che [quest’ultima] si
ritrovava alla devozione delli Spagnuoli. Poiché, conferitisi con una barchetta
in quella città per condurre in questa un Padre Cappuccino loro congionto,
credendosi esser la città [di Patti] retornata alla devozione di Sua Maestà
Cesarea e Cattolica, conforme dalli suoi Giurati s’avea giurato in questa
[città di Milazzo] allorché si publicò il bando dell’indulto, restarono presi
(come già si discusse). Raccontarono questi li gravi patimenti sofferti per
tutto il tempo della loro carcerazione, somministrandosi solamente mezzo pane
di monizione il giorno per ogn’uno di essi ed acqua, senz’altro per loro sostentamento.
Come pure che furono scarcerati a contemplazione [su richiesta, ndr] del Patron Giuseppe di Napoli di questa città,
il quale molto s’adoprò per la loro liberazione per mezzo di molti signori
comandanti ed officiali. Avendo seguito la loro scarcerazione sotto li 8 di
detto mese novembre.
18 novembre 1719
18 novembre.
Continuò l’istessa notizia della pace e che fra breve avrebbe seguito la
sospenzione dell’Arme tra l’Imperio e Spagna.
19 novembre 1719
Il conte di Mercy conferisce cariche di capitano di
giustizia e di capitan d’arme ad alcuni aristocratici milazzesi a titolo di
risarcimento per i danni subiti durante
l’assedio 19 novembre. Doppo presa la Cittadella di Messina, anzi tempo
prima, s’interposero tutti gli nobili melazzesi ricorrendo al signor generale
de Mercij, qual dominava nel Regno ed in quelle parti date alla devozione
dell’arme cesaree. Colla rappresentazione che per loro sollievo e per
risarcirsi dalle gravi spese, danni ed interessi patiti nell’assedio delli
Spagnuoli, cossì nelli beni rusticani come urbani, se li facesse la mercede
d’alcun posto nel Regno. Al che, per sua bontà e clemenza, detto generale diffuse
le sue grazie a favore delli sudetti. Poiché a molti di essi l’elesse per
capitani, conferendo la carica di capitano di giustizia della Terra della Forza
[d’Agrò, ndr] al signor Don Antonino
Tappia, di capitano di giustizia della città di Puzzo di Gotto al signor Don
Domenico Lucifero, di capitano di giustizia della città di Santa Lucia al
signor Don Antonino Proto ed Abbati, di capitano di giustizia e capitano d’arme
della città di Patti al signor Francesco Gionti, di capitano di giustizia e
capitano d’arme della Terra di Naso al signor Don Francesco Paulillo, di
capitano di giustizia ed arme della città di Noto al signor Don Francesco
Scarpaci, di capitano di giustizia e capitan d’arme della Terra di San Marco al
signor Don Saverio Lombardo. Delli quali personaggi solamente quello di Proto
ed Abbati prese il possesso del suo offizio senza alcuna controversia, come
l’altro di Tappia, avendosi conferito susseguentemente al loro governo. E
quello di Lucifero molto contrastò con l’abitatori di detta città di Puzzo di
Gotto innanzi detto signor generale de Mercij e dell’Eccellentissimo signor
viceré, poiché pretendevano non potersi conferire tal carica al sudetto signor
di Lucifero per esser contro il privileggio di detta città, ottenuto dal tempo
che la loro città s’esentò non esser più casale di questa città [di Milazzo],
che fu nel 1636. Ma doppo quei Giurati furono discacciati con alcun loro
disastro e da Sua Eccellenza e dal detto signor generale de Mercij, perloché
pure esso signor di Lucifero prese la possessione del suo officio. Bensì tutte
sudette cariche, distribuite dal sudetto signor generale de Mercij con sue
patenti, furono doppo confirmate da Sua Eccellenza con viglietti [biglietti, ndr] di sua segretaria. E
tolti li precitati signori di Tappia, Lucifero e Proto, li quali si conferirono
liberamente nelle città e terre destinate nel mese di dicembre venturo, l’altri
di sopra espressati non hanno possuto partirsi per amministrare le loro cariche
nelli luoghi espressi poiché in tutte sudette parti si sta alla devozione delli
Spagnuoli. Tanto che sono in questa.
Imboscata spagnola, in complicità coi civili di
Castroreale, ai danni della cavalleria imperiale. L’ennesimo disertore La notte scorsa molti cavalli spagnuoli fecero alto
nella terra di Mazzarrà e nello scaro di Presti Paolo, instradandosi doppo per
la fiumara sino agli confini di questo territorio, ove si ritrovavano alcuni
cavalli tudeschi usciti da questa [città] per pascolare e far la scoverta per
l’attentati del nemico spagnuolo. Ed impensatamente, fatta una imboscata dalli
spagnuoli, restarono prigionieri dicisette tudeschi con tutti gli cavalli,
presi alcuni nel fuggire, avendosi retirato gli altri nella corsa, con aver uno
di questi restato ferito. E nel medemo tempo uno di detti spagnuoli,
demostrando di seguire cogli altri alli tudeschi fuggitivi, se [ne] venne in
questa città con aversi venduto il cavallo e l’arme. E riferì che gli spagnuoli
azzardarono approssimarsi in questo territorio per essere stati chiamati dalli
paesani della Comarca, affinché puotessero predare ed assassinare il
territorio. E che restarono intesi pure che spesse volte uscivano da questa
città alcuni cavalli tudeschi per foraggiare; ed infatti li sortì la preda.
Inteso ciò, da questo signor comandante fulminava contro l’abitatori di questa
Comarca, specialmente di quelli della città del Castro Reale. Poiché gli
Giurati di essa di continuo s’escusavano non puotere scendere in questa città
per le molte scorrerie che soffrivano dalli spagnuoli, quando peraltro questi venivano
per essere stati chiamati da quelli paesani per la loro devozione all’arme
spagnuole.
20 novembre 1719
S’iniziano i lavori di ripristino alle coperture dei
magazzini destinati ad ospitare la cavalleria imperiale A 20 novembre.
Si diede principio a coprirsi gli magazeni nel quartiero di San Giacomo con
tavole e legname consegnate dalli cittadini. [Ciò] per trattenersi in detti
magazeni li cavalli che si ritrovavano in questa [città], poiché molto pativano
stando nello scoperto.
21 novembre 1719
Si ordinano gli arresti di Francesco Oliveri di
Pozzo di Gotto, il quale tuttavia riesce a fuggire sui tetti delle case dei
suoi vicini 21
novembre. S’unirono li spettabili signori giurati di questa [città di Milazzo]
per conferirsi nella città di Messina, volendo complire con Sua Eccellenza [il viceré Pignatelli, ndr] per
rallegrarsi della sua venuta nel Regno.
Avendosi
considerazione da questo signor comandante che Don Francesco Oliveri nella
città di Puzzo di Gotto sempre s’ha demostrato parziale delli [favorevole alli, ndr] spagnuoli - anzi
con tutto l’indulto promulgato da parte di Sua Maestà Cesarea e Cattolica non
comparse in questa città per rendersi obediente all’arme Cesaree (anzi aversi
adoprato a favore delli spagnuoli, oltre le gravi estorsioni fatte a questi
cittadini con molte composizioni che continuamente esercitava con molta
diligenza) - diede ordine [il suddetto comandante] che partissero da questa
[città] molte truppe tudesche di cavallo per catturare al sudetto di Oliveri.
Li quali, conferitisi in detta città su l’alba colla scorta ed intelligenza di
[segue lacuna nella copia, trattasi di
nominativo omesso, ndr], calabrese, circondarono tutta la casa del detto
d’Oliveri e, doppo, fatta la diligenza, non si puoté ritrovare per aversene
fuggito. Bensì quel puoco mobile retrovato fu tutto dissipato da dette truppe.
Si disse che il
sudetto di Oliveri fu notiziato [informato,
ndr] della condotta di dette truppe per supprenderlo. Perloché il mobile che
teneva in casa fu tolto. E con tutto ciò, nonostante la notizia avuta, senza
difficoltà sarebbe stato catturato. Poiché si promulgò doppo che, ritrovandosi
gli soldati attorno la sua casa, esso stiede per molto tempo denudato con la
sola cammisa sotto il tetto, nascosto, da dove caminando sopra li canali delle
case convicine si gettò in un luogo fori dell’abitato e se ne fuggì. Con avere
stato coperto d’una veste di camera d’un suo amico. Onde gli tudeschi restarono
delusi e più chi diede l’ordine secreto per restar prigioniero. Esso d’Oliveri
si nascose in luogo non penetrato [rimasto
ignoto, ndr] e quello che condusse le soldatesche per seguire la
carcerazione, se non con alcun donativo, consolato per aversi adempito la sua
infame fellonia. E da quel tempo in poi non comparse più il sudetto di Oliveri
nella detta sua città, avendosi avuta relazione che s’abbia unito colli
spagnuoli che restarono in questa Comarca. Ed alle volte nascostamente
refugiato in alcuna chiesa nelle parti convicine per servirsi nell’occorrenze
se li puotranno succedere. Per certo che la pena la dovrebbe soffrire chi non
puoté tener secreta la commissione avuta, almeno avrebbe servito per esemplare.
Poiché colla presa del detto d’Oliveri s’avrebbe tolto un parziale ed
affezionato delli spagnuoli. Anzi non dato motivo che colla sua scorta
frequentassero gli spagnuoli questo territorio colle scorrerie in disservizio
dell’abitanti di questa [città], per essere tutti gli loro beni devastati,
assassinati e rubbati. Si può ben affermare che sarà condegna col tempo la pena
con chi malamente ha esercitato la colpa.
22 novembre 1719
Privilegi concessi ad alcuni aristocratici milazzesi
per lo loro fedeltà alla corona imperiale 22 novembre. Venne notizia che
Sua Eccellenza [il viceré Pignatelli,
ndr] s’avea demostrato con questi cittadini molt’umanissimo, dando audienza
publica. Tanto che tutti, retornati in questa città, celebravano la sua
clemenza. Anzi molti nobili cittadini e sacerdoti, avendo ricorso alla sudetta
Eccellenza Sua con loro memoriali, ottennero decreto di puotersi a loro conto
introitare il diritto toccante alla Regia Corte sopra l’estrazione dell’ogli
per fori Regno, computandosi prima tarì tre per ogni cafiso, allorché gli
dritti entravano per detta Regia Corte; e la clemenza di Sua Eccellenza
dispensò da cafisi ventimila a diverse persone di questa [città]. Anzi
s’avrebbe dilatato a maggior somma se non fosse stato trattenuto d’alcuni
signori ministri regij, così militari come politici, con metterli innanzi gli
interessi di Sua Maestà Cesarea e Cattolica. Ed inoltre fu costretto reformare
in parte la somma dispensata di detta tratta d’ogli. E tutte quelle persone che
conseguirono questa mercede, fra breve [dopo
poco, ndr] se l’esitarono a grana cinquantacinque ed al meno prezzo a grana
cinquanta. Per certo che la munificenza di Sua Eccellenza molto si dilatò a
favore di questi cittadini, dichiarando publicamente aver avuto ordine espresso
da Sua Maestà Cesarea e Cattolica di riguardare con occhio benigno gli
interessi di questa città, atteso la sua sperimentata fedeltà, avendo speciale
considerazione di demostrarsi coll’opre differente dell’altre città del Regno.
E finalmente s’ottenne da Sua Eccellenza l’esenzione delle gabelle e dogane
pretese nella città di Messina con un decreto della Real Segretaria.
23 novembre 1719
Navigli carichi di cavalleria e fanteria imperiale
navigano da Messina verso Palermo per mettere in fuga gli Spagnoli 23 novembre.
Uscirono da Messina molte navi con tartane ed altre imbarcazioni e, passato il
Capo di Raisicolmo, si istradarono per Palermo. Si disse esser tutte cariche di
cavalleria ed infanteria tudesca per discacciare gli spagnuoli. Pure s’ebbe
notizia che le truppe spagnuole che si ritrovavano in questa Comarca s’avessero
partito per Palermo per tenerla alla devozione di Spagna, avendo rimasto poche
truppe in detta Comarca.
26 novembre 1719
Unità di cavalleria spagnola si trasferiscono a
Pozzo di Gotto
26 novembre. Venne notizia che si conferirono nella città di Puzzo [di Gotto]
molti spagnuoli a cavallo. E da quei paesani furono ricevuti o per genio o per
necessità: si credette piuttosto per inclinazione, la qual sempre hanno avuto
all’arme spagnuole.
27 novembre 1719
27 novembre. Sopra
molte tartane vennero dalla città di Lipari in questa molti soldati tudeschi.
S’asserì che s’uniranno cogli altri nell’armata.
29 novembre 1719
Ancora disertori. Le truppe spagnole trasferite in
gran parte a Palermo, eccezion fatta per una porzione rimasta a Novara di
Sicilia e dintorni 29
novembre. Vennero in questa città due desertori spagnuoli di cavallo fuggiti da
quelle truppe che remasero in questa Comarca. Ed avendosi venduto gli cavalli e
l’arme, avuta la commodità d’imbarco, s’inviarono nella Calabria. Riferirono
bensì che, avendo partito gli Spagnuoli per Palermo, restarono alcune truppe di
esse nella Comarca con alcuni officiali, retirandosi nella terra della Novara
ed altre parti convicine, assassinando a loro voglia. E con tutto ciò si demostrarono
gli paesani molto parziali delli spagnuoli, non badando alle loro violenze
indiscrete. Contentandosi meglio soffrire [piuttosto] che retornare
all’obedienza del legitimo dominante.
30 novembre 1719
Le simpatie del viceré imperiale per i Milazzesi 30 novembre. Da
più tempo, come in questo giorno e cossì sussequentemente, venivano relazioni
da Messina che Sua Eccellenza [il viceré,
ndr] assecondava le brame di questi abitatori in tutto quello che desideravano,
dispensando le grazie a prof[l]uvio per tutto quello che puotea. Dichiarandosi
che pronto avrebbe stato a donare, ma che si dovevano riguardare gli tempi
calamitosi. E non avrebbe faltata [mancata,
ndr] l’occasione di dispensare tutto affinché restassero consolati.
1 dicembre 1719
Primo decembre.
Non si puotea più soffrire in questa città la fame delli poveri abitatori per
la carestia d’ogni vittovaglia e viveri, mancando il pane, vino, carni, salumi,
oglio, legumi, riso, pasta ed ogn’altra cosa. E quella poca robba che si
retrovava era di malissima qualità e condizione e si vendeva a prezzo molto
esorbitante. Ed il peggio era che la Comarca era serrata, non puotendo scendere
cos’alcuna per timore delli nemici spagnuoli. E benché gli spettabili signori
giurati s’avessero ingerito a viva forza di ritrovarsi il pane - con tutto che
fosse porta [termine, quest’ultimo, di
non certa trascrizione, ndr] serrata, [mentr]e nell’archivio volendo per
ogn’ott’onze grana quattro e fetido - sempre ricorreano a questo signor
comandante per somministrarli qualche puoco di farina di quella che
giornalmente venia da Calabria per le truppe. Al che sovente si compiacea
assecondare la volontà di detti signori giurati. Di più questi ricorsero più
volte a Sua Eccellenza, per via del signor generale di Mercj, molto affezionato
a questa città. E più delle volte pure restarono consolati, parendo bensì
secoli l’ore che non appareva pane nelle piazze. Ed invero era insoffribile
vedersi le ciurme delli poveri affissi ad una grada [grata, ndr] per aver un pane, con tutto che sovente si dispensasse
grana due a testa per ogn’uno il giorno.
Mese di dicembre 1719
Due amministratori comunali si recano a Messina in
udienza dal viceré Pignatelli, duca di Monteleone, che riserva loro un
trattamento privilegiato, promettendo alcuni interventi a favore di Milazzo Mese decembre.
Partirono in questo mese li signori Don Francesco Proto de Alarcon e Don
Antonino Muscianisi, due delli spettabili giurati di questa, per la città di
Messina con il loro equipaggio per allegrarsi con Sua Eccellenza della sua
venuta nel Regno. E si disse che questi furono bene trattati da Sua Eccellenza.
Anzi, differenziati dall’altra nobiltà ch’assistea al corteggio, con
ammirazione ed invidia di tutti. Inoltre conseguirono molte promesse al
benefizio di questa città per aver avuto espresso ordine di Sua Maestà Cesarea e
Catolica di agevolar questo publico nelle sue richieste. Tanto che retornarono
questi consolatissimi.
Il milazzese Aloisio D’Amico nominato dal viceré giudice
penale a Castroreale
Pure [fu consolato] il signor Don Aloisio D’Amico, il quale per molt’anni avea
stato al servizio dell’Augustissimo Imperadore nel Regno di Napoli, unitamente
colli signori Don Pietro, suo padre, e Don Giovanni e Don Pippo D’Amico, suoi
fratelli, con l’onore di capitani d’infanteria e detto Don Pippo di tenente. E
dal tempo che s’aveano fuggito da questa città sua [loro, ndr] patria, con pericolo d’esser decapitati dall’officiali
spagnuoli ch’allora dominavano nel Regno (come s’ha descritto), il sudetto
signor Don Aloisio ottenne da Sua Eccellenza la carica di capitano di giustizia
[giudice penale, ndr] della città del
Castro Reale. Ed infatti si conferì in questo mese nel suo governo, qual
esercita con ogni esemplarità [e] con somm’applauso di tutti quei abitatori,
per esser realmente il personaggio di molta bontà.
Nicolò Cumbo, anch’egli milazzese, nominato dal
viceré sergente maggiore a Patti Inoltre si compiacque Sua Eccellenza
eleggere per sargento maggiore della città di Patti, col dispotico di questa
Comarca, al signor Don Nicolò Cumbo, quale pure avea stato molt’anni al
servizio dell’Imperadore con li sudetti signori D’Amico dal tempo che se ne
fuggirono da questa sua [loro, ndr] patria
dominando gli Spagnuoli, avendo avuto il posto di capitano d’infanteria, benché
doppo avesse stato reformato come tutti li sudetti signori D’Amico suoi
congionti. Per certo che il sudetto signor di Cumbo era riguardato da Sua
Eccellenza con occhio benigno per aver avuto servitù con detto signor Duca
Pignatelli, allorché si ritrovava nelli suoi stati di Monteleone nel Regno di
Napoli. Anzi, conseguì commissioni di molta consequenza in servizio di Sua
Maestà Cesarea e Catolica, come in appresso si descriverà.
Continua la carestia Vennero pure in
questo mese da Calabria alcune felughe con alcune botti di vino per venderlo e
molt’altre cariche di castagne, e verdi e secche. E per essere la città
affamata, priva di qualsivoglia vettovaglia, nell’instante che approdavano le
barche nella Marina di subito era venduta tutta la robba. Successivamente si
fecero a vedere alcun’altre felughe cariche di pomi venute da Calabria. E di
subbito si [segue parola di ardua
trascrizione, ndr] a caro prezzo.
Le truppe spagnole scorazzano ancora nel Milazzese Non cessavano
gli Spagnuoli d’infestare nonché [non
solo, ndr] la Comarca, [pure] tutto questo territorio, facendo di continuo
molte scorrerie. Tanto che le persone [segue
parola di ardua trascrizione, ndr] di questa - per non inciampare in alcun
sinistro accidente e non soggiacere alle violenze di detti Spagnuoli, scortati
da molti paesani della Comarca dichiarati nemici di questa città - non
presumevano uscire nella Piana per osservare gli loro poderi e possessioni.
Almeno per restaurarle, per non disperdersi dell’intutto. Anzi, s’osservò che
molti nobili di questa città - con tutto che s’avesse tolto l’assedio dalli
Spagnuoli, e questi retiratisi sino a questo tempo e per l’avvenire - non
ardirono uscir fori le porte per non incontrare cogli Spagnuoli, contentandosi
più meglio perder affatto le loro facoltà [piuttosto] di che mettersi ad alcun
repentaglio.
Alcuni aristocratici finanziano il viaggio sino a
Napoli di un’imbarcazione per rifornire di viveri la città Per esser la
città con molta carestia s’ingerirono alcuni nobili cittadini - cioè il
cavaliere signor Don Mario Cirino, li signori Don Marcello Domenico D’Amico,
Giovanni Muscianisi e Dottor Don Antonino suo fratello ed altri - di far un
capitale di denari ed inviare persona seria in Napoli per farsi compra di
viveri. Ed infatti, noleggiata una tartana messinese col Padron [segue lacuna nella copia, ndr], l’inviarono
in detta città, dando la commissione come sopra carico al sacerdote Don Pietro
Alosi.
Disertori spagnoli riferiscono che le loro truppe si
sono trasferite perlopiù a Palermo, nuovo bersaglio delle truppe imperiali Comparirono in
questo mese ed in più volte molti soldati spagnuoli cossì di cavallo come
pedoni, avendo desertato dalle loro truppe rimaste in questa Comarca verso la
Novara e parti convicine. Riferirono che il grosso della lor’armata s’avea
partito per la volta di Palermo per tenerla in freno a loro devozione, giaché
s’avea avuto la notizia che l’arme di Sua Cesarea e Catolica Maestà s’aveano
instradato per quelle parti. E fatta vendita delli loro cavalli ed armi, si
dava l’imbarco per Calabria e per Napoli, per dove s’incontrava la commodità.
Rifornimenti per le truppe imperiali Non passava
giorno che da Calabria non avessero venuto molte tartane cariche di frumenti,
farine, fascine, orzi, paglia, biscotti ed altre provisioni di viveri per
servizio delle truppe tudesche e loro cavalli. Repostandosi il tutto in
magazeni deputati.
Sulla gestione dei viveri destinati alle truppe
imperiali: il provveditore generale Francesco Maria Di Gregorio a Milazzo Dal principio
della guerra, avendosi l’Augustissimo Imperadore ingerito a defensione di
questo Regno colla condotta delle sue truppe, così di cavallo come di fanteria,
sopra le navi inglesi e molt’altre navi, vascelli, tartane ed altre
imbarcazioni venute da Napoli e Calabria, tanto ritrovate in detti regni come
d’altre parti, sino di quelle che l’anno scorso erano state nell’Ungaria [Ungheria, ndr] e con impegno
molt’esemplare. Come pure, conducendosi le provisioni di viveri e vettovaglie
per tante truppe e cavalleria, con ogni
accuratezza s’attese - così dal signor Viceré di Napoli, il signor conte de
Daum [Daun, ndr], come dal signor presidente
Garoffaro - a farsi sudette provisioni con aversi eletto un commissario
generale officiale tudesco per aver cura di dette provisioni. Anzi, si fece
elezione d’un provveditore generale col salario condecente - avendo stato il
primo il signor Don Francesco Spagnuolo (bensì doppo il signor Don Francesco
Maria di Gregorio, tutti italiani) - per aver cura questi nell’amministrazione
di tutta la provianda, correndo il tutto a conto della Regia Corte. Con doversi
dispensare tutti gli viveri per dette truppe da detti provveditori, col
contrasegno ed a polise di detto commissario. Con obligo di liquidarsi il tutto
per ogni mese dal provveditore generalissimo di tutte sudette truppe cesaree
residente nel Regno di Napoli. Computandosi tutte le spese così di carriaggi di
detti viveri sino a magazeni, come di salarij di più guardiani per aver cura di
dette provisioni e consegna delle medeme. E spese di farsi il pane di monizione
così per gli officiali, come per le soldatesche; ed altre spese necessarie. E
per molto tempo continuò detta carica il sudetto signor di Spagnuolo. Quale
dismesso, doppo aversi trattenuto più mesi in questa, fu eletto il sudetto
signor di Gregorio, continuando tal offizio [e] servendosi di molti notarij per
coadiutori tanto per redursi in forma publica la ricevuta di dette vettovaglie,
come per la dispensa fatta di detti viveri, sempre a polise del commissario. E
sopra ciò s’attendea con ogni vigilanza ed attenzione e per servizio di Sua
Maestà Cesarea e Catolica e per il risparmio delle spese. Ma doppo, entrate
l’arme tudesche nella città di Messina e presa la Cittadella, anzi, più d’inanzi
d’allorché il campo tudesco si conferì vicino quella città, il sudetto di
Gregorio - dovendo tener cura a tutto il corpo dell’armata - si partì da questa
città con aver sostituito per proveditore in sua vece al notaro Giobattista di
Luca, persona molto intelligente. Ed esso si partì per ritrovarsi presente
nella provianda per servizio di tutto sudetto campo.
In occasione della conquista austriaca di Messina
sospeso a Milazzo il servizio postale imperiale che arrecava benefici alla
popolazione, oltre che alle truppe: la posta veniva recapitata ogni 8 giorni Inoltre, venute
l’arme di Sua Maestà Cesarea e Catolica in questa città, stante l’assedio
stretto dalli Spagnuoli, per tutto detto tempo e per l’avvenire, retiratosi le
sue truppe in questa città, si diede providenza di correre la posta per Napoli
e per Calabria, venendo e retornando ogn’otto giorni. Tenuta detta posta
d’officiali tudeschi. Il che era molto profittevole tanto per questi cittadini,
come per gli officiali e loro truppe, sapendosi distintamente il seguito in
questa città e notizie che correano per tutto il mondo. Bensì, retiratesi le
truppe da questa [città] per il campo verso Messina, si tolse questa buona
commodità.
Con la conquista di Messina, Milazzo perde anche i
benefici della grande farmacia destinata alle truppe imperiali Inoltre, avendo
venuto le truppe tudesche, s’ebbe molta cura dagli officiali tudeschi che gli
poveri infermi soldati fossero governati colla somministrazione di tutti gli
medicamenti opportuni. Perloché di subbito venne lo speziale con molti
prattici, con avere preparato e disposto una sontuosa aromataria [farmacia, ndr] con tutti li medicamenti
necessarij, tenendosi in due stanze ben accomodate, dispensandosi - così per
tutte le truppe come per gli officiali - dalli chirurgi d’ogni regimento.
Poiché, oltre il medico e chirurgo principali di tutta l’armata, ogni regimento
tenea il suo chirurgo. E così si ricevea sodisfazione d’ogni ancor minimo
fante, sormontando per ogni mese l’esito [la
spesa, ndr] di detti medicamenti alla somma di novecento e mille ducati,
anzi più. La qual somma puntualmente si sodisfaceva in Napoli allo speziale
generale di dette truppe, bonisate e calculate bensì dal medico generale. Ma,
tolto l’Assedio e retirate le truppe tudesche al corpo dell’armata verso
Messina, si tolse questa commodità alli poveri ammalati. Con tutto che avessero
restato gli chirurgi per l’occorrenze e porzione di detti medicamenti in caso
di persona che avea cura di dispensarli. Del che s’ammirò la cura e diligenza
di Sua Maestà Cesarea e Catolica, volendo che le sue truppe fossero governate
tanto in tempo che stavano attualmente servendolo, come ritrovandosi o con febre o per altra causa infermi.
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